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    Mafia: Colpo a clan Matteo Messina Denaro, arresti insospettabili e avvisi di garanzia anche a sindaco di Calatafimi-Segesta

    E’ scattato nella notte, intorno alle 2, il blitz della Polizia nei confronti di una serie di presunti mafiosi, molti dei quali vicini al numero uno di Cosa Nostra, il boss Matteo Messina Denaro, che continua a regnare invisibile ma forte, nel trapanese. Tredici i provvedimenti di fermo emessi dai magistrati della Dda di Palermo che centinaia di agenti delle squadre mobili di Palermo e Trapani, supportati da quelli del Servizio centrale operativo.

    Fra questi spicca il nome di Nicolò Pidone, 57 anni, considerato il nuovo boss di Alcamo che dalla stanza di una masseria, dava ordini per affari, placare controversie tra famiglie mafiose e condizionare elezioni politiche. Pidone, direttamente o attraverso il proprio uomo di fiducia, Gaetano Placenza, allevatore messo ai vertici della società, decideva chi assumere scegliendo il personale in modo da aiutare le famiglie dei detenuti mafiosi e disponeva che ad esponenti di Cosa Nostra venissero dati soldi.

    Tra coloro che favorivano gli incontri e le comunicazioni, hanno ricostruito le indagini, c’era il 46enne imprenditore agricolo vitese Domenico Simone.

    Nell’operazione Ruina, fFermati anche l’imprenditore Leonardo Urso, di origini marsalesi, enologo, accusato di favoreggiamento, e l’imprenditore agricolo Andrea Ingraldo, di origini agrigentine, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver assunto fittiziamente Pidone per far figurare l’esistenza di una regolare posizione lavorativa e attenuare la misura di sicurezza.

    Le manette sono scattate poi per insospettabili come Salvatore Barone, ex presidente dell’Atm e anche presidente della cantina sociale Kaggera di Calatafimi,  al servizio di Pidone, che avrebbe agevolato cosa nostra assumendo parenti e amici dei boss. Tra le assunzioni più importanti, volte a favorire i clan, secondo quanto si apprende, figura quella di Veronica Musso, figlia del boss Calogero Musso, ergastolano, ex capo della “famiglia” di Vita , e, quella in itinere, di Giappone Loredana, moglie del fermato Leo Rosario Tommaso. In arresto anche Stefano Leo, ritenuto uomo di fiducia di Vito Gondola ora deceduto, numero uno di cosa nostra a Mazara del Vallo e che negli anni scorsi, avrebbe affiancato Messina Denaro nella sua latitanza.

    L’indagine, coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Francesca Dessì e Piero Padova, fa arrivare venti avvisi di garanzia ma uno, su tutti, fa notizia. si tratta di quello arrivato al sindaco di Calatafimi-Segesta, Antonino Accardo. Per lui l’accusa è di corruzione elettorale ed estorsione, con l’aggravante mafiosa.

    Dalle intercettazioni è emerso che avrebbe pagato 50 euro a voto per le comunali dello scorso anno, dove concorreva alla carica di sindaco del comune di Calatafimi Segesta (Trapani) che ha vinto con 1900 voti. Ad aiutarlo Barone, che, pare, gli avrebbe procurato voti.

    Sono state documentate inoltre frequentazioni del primo cittadino con esponenti di Cosa Nostra ed un tentativo di recuperare somme di denaro, nei confronti di un imprenditore di Petrosino, ex socio in affari dello stesso sindaco, avvalendosi dell’intervento del Leo Rosario Tommaso, attraverso l’intermediazione della stessa famiglia mafiosa di Calatafimi.

    Accardo, insegnante in pensione, 73 anni, ha alle spalle alcune esperienze da assessore e consigliere comunale a Calatafimi.

    Tra gli indagati anche altri condannati per mafia come Rosario Leo, pregiudicato che vive a Marsala, e cugino di Stefano Leo, molto vicino al boss di Mazara del Vallo Vito Gondola e a Sergio Giglio, coinvolto nell’inchiesta sui favoreggiatori del capomafia Matteo Messina Denaro.

    Sulla base delle ricostruzioni investigative il Leo Stefano, è risultato anche coinvolto nella latitanza dell’ergastolano Vito Marino, catturato dalla Polizia di Stato il primo ottobre 2018.

    Con lui sono diversi gli imprenditori finiti nel mirino delle indagini. Per tutti gli indagati le accuse ipotizzate sono, a vario titolo, associazione mafiosa, estorsione, incendio, furto, favoreggiamento personale e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso.

    In quest’ultimo ambito, si legge in una nota della Polizia, «si inquadra l’incendio della vettura dell’imprenditore Caprarotta Antonino, ordito dallo stesso Pidone Nicolò e realizzato con il concorso degli altri fermati ed aderenti all’associazione mafiosa, Aceste Giuseppe, Sabella Antonino – quest’ultimo già in carcere perché colpito da provvedimento restrittivo a seguito dell’operazione “Cutrara”, coordinata dalla D.D.A di Palermo, nello scorso giugno – e Fanara Giuseppe, agente di commercio».

    Infatti, continuano gli inquirenti «lo stesso impresario, nell’ambito dell’attività di indagine della Procura di Trapani  aveva proposto denuncia contro l’imprenditore di Isca Francesco ed altri soggetti implicati nella vicenda della gestione dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi – Segesta, culminata nell’emissione di provvedimenti restrittivi a carico del predetto imprenditore e nei confronti dell’ispettore della Polizia Municipale Caprarotta Salvatore».

    Tra le persone fermate figurano anche Gennaro Giuseppe, «altro esponente della famiglia mafiosa di Calatafimi, accusato, oltre che di associazione mafiosa, anche di aver rubato un trattore agricolo, nell’interesse dell’associazione stessa, unitamente agli altri esponenti di Cosa Nostra  Francesco Domingo, Stabile Sebastiano e Salvatore Mercadante, raggiunti da provvedimenti restrittivi nell’ambito dell’indagine “Cutrara” incentrata sulla famiglia di Castellammare del Golfo».

    Destinatario di fermo anche il «trentasettenne calatafimese Chiapponello Ludovico, indagato per aver favorito l’associazione mafiosa mediante l’effettuazione di un’attività di bonifica, finalizzata alla rilevazione della presenza di eventuali microspie all’interno della fatiscente dependance del capo della famiglia mafiosa Nicolò Pidone».

    Tra gli indagati anche un appartenente alla Polizia Penitenziaria, cui è contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, commesso al fine di agevolare Cosa Nostra.

    Le attività tecniche hanno dimostrato che il sodalizio mafioso avesse la disponibilità di armi occultate, oggetto di ricerca nel corso delle 20 perquisizioni effettuate, anche con l’utilizzo di sofisticate apparecchiature in dotazione alla Polizia Scientifica e di unità cinofile antiesplosivo.

     

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