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    Vendemmia: ritratti di famiglia

    Di settembre mi ricordo l’odore della terra e le facce stropicciate da sveglie suonate troppo presto per i ritmi ancora tarati su baricentri estivi. Volti comunque felici di essere baciati dal sole tiepido e colazioni in famiglia fatte accompagnando la campagna al risveglio mentre Apollo arrancava col carretto “post art“. Mi ricordo mani appiccicose che raccoglievano grappoli d’uva maturate sotto quel “divino Sole”.

    Mi ricordo gli occhi vigili del nonno che si assicuravano che non ti facessi male ma, che ti lasciavano fare con le forbici mentre, le filiere di vigne venivano alleggerite da ogni componente della famiglia, da grappoli succosi e maturi.

    Mi ricordo le fronti matite di sudore ma, nessun lamento.  Mi ricordo qualche abbraccio ogni tanto e qualche bacino come segno d’approvazione forse, o d’incitamento ma, per me era affetto e la vendemmia, al pari della raccolta delle olive, mi sembrava un gioco a cui partecipava tutta la famiglia. Mi ricordo che il nonno faceva dei fischietti con l’erba. Mi sembrava una cosa magica.

    Mi risuonano in mente le sonore risate mentre si rincorrevano farfalle o si scappava dalle api. Con i miei cugini, appena ci stancavamo, si andava a caccia di grilli (ma era solo un gioco –per rassicurare gli animalisti nessuno li catturava veramente-), ci incuriosivano i mille piedi o le lumache senza guscio. Erano dei veri e propri corsi accelerati di “botanica en plein air”.

    La parte più bella era quando i maschi finivano di portare le “Cardarelle” (secchi) a spalla sul trattore riempiendolo fino a strabordare.

    Allora il nonno mi faceva un segno e io salivo su a metà tra il guidatore e il rimorchio, gambe e braccia aperte con le mani che si tenevano strette strette e partivamo piano piano verso la cantina. Il nonno cantava “arrivata è la vinnigna, la stagiuni di l’amuri, mentri cogghino la vigna nu me cori nasci un ciuri, e ciuriddu nicu nicu manu a manu s’ngrandisci, lu me cori nun capisce si è amuri o soccu è..e comu haiu a fari e comu haiu a fare la notte e u journu nun pozzu chiù stare...” e il vento mi accarezzava i capelli che, allora, erano ricci e biondi. Era un momento speciale.

    Quando arrivavamo a destinazione, ci mettevamo in fila e aspettavamo il nostro turno. L’odore di mosto entrava prepotente nelle nostre narici arrivando ovunque. Un signore veniva a controllare l’uva decretando se fosse buona: se era dolce il nonno era felice. Altro che fattorie didattiche!

    Un’altra cosa che mi piaceva era il pranzo. Dopo quella mattinata di lavoro intenso, ci si fermava tutti per riposare un pò all’ombra di un grande albero. Papà e lo zio accendevano la brace e si arrostiva la carne che, chissà perché, lì aveva sempre un altro sapore. Si rideva e si scherzava. Poi si tornava a vendemmiare felici. Non c’erano i telefonini. Nessuno faceva stories, né selfie. Si raccontavano “storie d’altri tempi”, o, come piaceva esordire a mio nonno “a tempi antichi….”  e ci si godeva il momento.

    Queste sono fotografie preziose di ricordi unici di cui ne riesco a sentire ancora il profumo.

    Il vino di quelle giornate, a dispetto del verdetto di “quella persona” veniva distribuito a tutti i capifamiglia che avevano partecipato.

    Quando andavamo a mangiare dal nonno, che sedeva sempre a capotavola, ne beveva sempre un pochino nel suo piccolo bicchierino…un vino che, a noi piaceva tantissimo perché sapeva d’amore. Sapeva di noi.

     

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